Marche, mezzo secolo di sogni e speranze


Nel dicembre 1976 la Fondazione Merloni di Fabriano fece una sorpresa ai marchigiani, quasi una “strenna”: diede alle stampe, per i tipi della casa editrice Il Mulino, il primo numero di “Economia Marche”, un periodico destinato a continuare con cadenza semestrale. Il suo scopo – scriveva nella presentazione Francesco Merloni – “è analizzare e dibattere le problematiche del territorio regionale, con l’augurio di far nascere validi contributi alla loro soluzione”.

Ho ripensato a questa rivista dopo una lunga telefonata avuta il giorno di Pasqua con un conterraneo, che da oltre trent’anni vive in una città del settentrione. L’iniziale scambio di auguri si è trasformato in un lungo colloquio telefonico sul futuro di questo territorio. “Le Marche sono finite, non hanno futuro” è stata la sintesi del suo ragionamento. Cercavo di frenare la sua pessimistica determinazione adducendo, tra l’altro, le questioni legate al terremoto, ma le sue convinzioni – mi spiegava – erano dovute a cause pregresse e ormai lontane nel tempo. Gli effetti del sisma del 2016 – sosteneva – sono ben più pesanti del danno materiale provocato perché il terremoto ha trovato una comunità economicamente e socialmente già “debilitata”, priva di “anticorpi” in grado di farla reagire in fretta. A parte poche illuminate e resistenti imprese dislocate a macchia di leopardo sul territorio – ripeteva – mancano punti di riferimento in grado di far ipotizzare strategie di sviluppo per il futuro. 

Dopo quella telefonata ho voluto riprendere in mano il primo numero di Economia Marche. Tra le pagine ormai ingiallite ho potuto leggere passaggi che fanno riflettere. Nell’introduzione, ad esempio, si spiega che lo sviluppo delle Marche, dal dopoguerra fino a quei primi anni Settanta, “si è appoggiato quasi esclusivamente ad un sistema di piccole e medie imprese, eredi talvolta di una antica tradizione artigianale, e ad una struttura urbanistica priva di grandi centri e ricca invece di piccole città diffuse quasi uniformemente su tutto il territorio”. E più avanti: “tale tipo di sviluppo ha dato risultati di estremo interesse, se è vero che l’occupazione industriale nelle Marche ha avuto (nei quindici anni precedenti quel 1976, n.d.r.) un aumento del 45%, contro il 17% delle media nazionale”. Ancora oltre: “il reddito pro-capite si è sviluppato nella stesso periodo a una media del 5% annuo e il saldo migratorio, negativo fino al 1971, ha invertito da quell’anno il segno, e sta attualmente crescendo in senso positivo”.

Viene allora da chiedersi: cosa è successo dopo quella prima metà degli anni Settanta?

Occorre ricordare che all’epoca c’era una grande fiducia nelle neonate Regioni e il nuovo ente regionale veniva visto – nelle Marche in modo particolare – come una “bacchetta magica” in grado di dare soluzione ad ogni istanza. 

Ciò non è avvenuto e lo dimostra il fatto che dopo mezzo secolo il divario economico e sociale tra le regioni è rimasto di pressoché inalterato e l’equilibro territoriale, in termini demografici e di servizi, all’interno delle Marche è addirittura peggiorato.

Già in quel primo numero di Economia Marche affiorava una velata critica al modo di operare della Regione nel primo quinquennio di attività. La si poteva leggere in un breve saggio, “Studi sull’economia marchigiana”, a firma di Gilberto Gaudenzi e dell’economista Giacomo Vaciago, che a quel tempo insegnava presso l’ancor giovane università di Ancona. Nel ricordare i diversi studi elaborati negli anni Sessanta dall’Istituto di studi per lo sviluppo economico della Marche e dal Comitato regionale per la programmazione economica, i due autori lamentavano che a partire dagli anni Settanta, “in paradossale coincidenza con l’inizio dell’attività della Regione Marche, gran parte di quel patrimonio conoscitivo è andato disperso o è risultato inutilizzato, mentre il flusso di nuovi studi è diminuito d’intensità, aumentando di casualità, frantumandosi in settori diversi e fra istituzioni di ricerca separate”. In quei primi anni di vita la Regione aveva stanziato per la ricerca oltre un miliardo di lire, fondi che nel 1976, però, risultavano ancora in gran parte inutilizzati. 

Quando fu istituita la Regione, le Marche avevano tre macro obiettivi: piena occupazione ed eliminazione dello spopolamento, tenendo conto soprattutto della “migrazione” della forza lavoro dall’agricoltura verso l’industria e il terziario; diminuzione del divario con le regioni più sviluppate; un equilibrato assetto territoriale. 

In cinquant’anni le Marche hanno perso una dozzina di comuni, passati alla Romagna; gli abitanti sono scesi a meno di un milione e mezzo di unità; è aumentata l’età media e di conseguenza anche la popolazione inattiva; le aree interne – come recentemente ha scritto Fulvio Esposito qui su Orizzonti – sono diventate “marginali”; la sanità pubblica è al collasso, ma quella privata fiorisce.  Ad essere ottimisti sul futuro occorre un grande coraggio.

© Alessandro Feliziani / Orizzonti della Marca

(Articolo pubblicato sabato 20 aprile 2024 sul settimanale ORIZZONTI della MARCA n.16)


Commenti

Post più popolari