Ermenegildo, il “gigante buono”.
© Per molto tempo il primo giorno di ottobre ha identificato l’inizio dell’anno scolastico. Nell’ormai lontano 1960, quella mattina del primo giorno di scuola, uscendo da casa per andare al Villaggio Don Bosco, non so dire se sentissi più curiosità o più timore nel sapere che avrei avuto un nuovo maestro. Dopo due anni con una maestra alquanto “materna”, a cominciare dalla terza elementare avrei avuto la novità di un maestro uomo.
Quando arrivai a scuola, percorrendo il lungo corridoio che girava tutt’intorno al cortile, lo individuai subito. Era molto alto e robusto di corporatura, cosa che mi porto a fare istintivamente il confronto con mio padre – pure lui alto – morto pochi mesi prima. Stava davanti alla porta dell’aula e con la sua statura sovrastava non solo gli alunni che affollavano il corridoio, ma anche le tante mamme che, dopo aver accompagnato i loro figli, si erano fermate a parlare con lui. Si chiamava Ermenegildo Barnobi e – seppi molto tempo dopo – che era arrivato a Tolentino subito dopo la fine della seconda Guerra mondiale dalla natia Pola, come molti altri italiani d’Istria costretti a lasciare la loro terra. A Tolentino si era sposato e aveva messo su famiglia.
Tornando a quel primo ottobre 1960, quando il maestro entrò in classe, chiudendosi la porta alle spalle e salì in piedi sopra la pedana della cattedra, sembrò ancora più alto, un gigante. Del gigante però aveva solo la stazza, perché il suo viso e soprattutto il suo sguardo erano rassicuranti. Meno lo erano le sue grosse mani che non disdegnava di usare per qualche pedagogico scappellotto e soprattutto per trascinarti per un orecchio dal tuo banco fin dietro la lavagna quando noi alunni lo costringevamo a metterci in punizione. Punizione che si doveva accettare in silenzio, altrimenti si rischiava che il suo grosso piede si scontrasse con il tuo fondoschiena, come accadde a me un mattino dell’anno seguente, reo di camminare fuori dalla fila durante il corteo per le vie cittadine in occasione delle celebrazioni per il 1° centenario dell’Unità d’Italia. Con queste sue “caratteristiche” è stato un ottimo insegnante, al quale – tra l’altro – ho sempre invidiato la bella calligrafia con la quale scriveva sulla lavagna o sui nostri quaderni. Ci faceva appassionare alla storia, alla geografia o alle scienze, che nelle belle giornate di primavera preferiva spiegarcele durante una passeggiata in campagna e preferibilmente tra le tante specie arboree del “Boschetto Benadduci”.
Non era burbero ma rigoroso nel pretendere il rispetto delle regole; era esigente, ma sapeva essere anche indulgente. Si è fatto amare da tutti gli alunni come un secondo padre e, anche dopo finite le scuole elementari, quando lo si incontrava per strada e ci appariva sempre “meno alto”, ci fermava perché aveva piacere di conoscere l’andamento del nostro successivo percorso scolastico.
Negli ultimi anni delle scuole superiori, però, non ebbi più occasione di incontrarlo per le vie di Tolentino e, in seguito, seppi che nel ’68, proprio in concomitanza con le prime profonde trasformazioni che avrebbero sconvolto anche la scuola italiana, il mio “gigante buono” si era trasferito con tutta la famiglia a Trieste, per sentirsi più vicino alla sua terra d’origine.
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