Giuseppe Mainini tra arte e civiltà contadina.

© Complice la pandemia – e forse anche i timori per il diffondersi della pesta suina africana – per il secondo anno consecutivo sono quasi del tutto mancate nelle nostre campagne e nei piccoli centri rurali le già sparute tradizionali manifestazioni celebrative della festività di Sant’Antonio abate (17 gennaio). Una tradizione, quella legata al protettore degli animali, in passato molto sentita e partecipata, al pari di tante altre consuetudini, riti e usanze legate ai cicli della natura e alla vita contadina. Momenti che si stanno perdendo per sempre nella memoria collettiva e che invece sono stati a lungo tra i soggetti prediletti di uno dei maggiori artisti marchigiani del Novecento, anche lui oggi quasi dimenticato: Giuseppe Mainini (Macerata,1898 -1981), del quale ricorre il centenario della sua prima partecipazione ad una mostra, l’esposizione di “Arte marchigiana” ad Osimo del 1922, con la quale, appena ventiquattrenne, si fece conoscere ed apprezzare dalla critica del tempo. 

Di sangue umbro-marchigiano (il padre era di Castelvecchio di Preci), Mainini si accostò all’arte figurativa da autodidatta, diventando presto uno dei più apprezzati incisori, tecnica cui fu indotto dall’ammirazione che ebbe, quando era ancora ragazzo, per l’opera di Francesco Vitalini (Fiordimonte 1865 - Auronzo di Cadore 1905). 

Aveva seguito studi tecnici fino al diploma di perito agrimensore e tale fu la sua professione per quasi tutta la vita, salvo la parentesi di insegnamento all’Istituto per la decorazione e l’illustrazione del libro ad Urbino, dove fu chiamato per chiara fama. “Misurava i terreni e ne disegnava le planimetrie con la stessa sapienza e rigore dell’incisore … e alla sera, chiuso il lavoro quotidiano, si ritirava nello studio, dove incideva e stampava con la stessa calma fermezza con cui nelle case di campagna si recitava il rosario e ci si preparava per la notte”, ha scritto di lui Nino Ricci in un volumetto che nel 2006 l’editore Liberilibri ha dedicato ad una selezione di opere di Mainini. 

Come il suo quasi conterraneo e coetaneo Tullio Colsavatico (Camporotondo di Fiastrone 1901 – Tolentino 1980), che con i suoi racconti, le sue poesie e i suoi aforismi, è stato un cantore della nostra terra, così Giuseppe Mainini, con molte sue incisioni, ha fatto incontrare il mondo dell’artista con quello della civiltà contadina. 

“La potatura”, “Il taglio del fieno”, L’aratura”, “La vendemmia”, “L’apicoltore” e molte altre opere realizzate negli anni Trenta, sono testimonianze fedeli del duro lavoro dei contadini, quando la meccanizzazione agricola era ancora lontana dall’arrivare.

Oltre a momenti di quotidianità rurale e scene domestiche in ambiente agricolo, Mainini ha lasciato anche innumerevoli suggestivi scorci di città e paesi. Le sue opere ispirate a monumenti, vie, piazze, chiese, palazzi, per la precisione dei dettagli, costituiscono oggi preziose testimonianze di aspetti urbanistici e di costume andati perduti. 

Gran parte delle sue opere sono state esposte in numerose mostre in Italia e anche all’estero (Bordeaux 1932, Bruxelles 1954, Stoccolma 1963), contribuendo ad affermare Mainini come uno dei più rappresentativi incisori italiani. 

Egli ha lasciato lavori anche nel campo della grafica pubblicitaria. Come hanno ricordato i critici d’arte Alvaro Valentini e Lucio Del Gobbo in alcuni loro scritti sull’opera dell’artista, la collezione storica della Nazareno Gabrielli di Tolentino conserva disegni realizzati da Giuseppe Mainini per le decorazioni di agende, calendari e copertine di album in pelle, riferibili agli anni Venti e Trenta del secolo scorso.

Dopo la sua morte, Mainini è stato ricordato con un’ampia mostra retrospettiva promossa a Macerata dalla Fondazione Carima e prima ancora in una rassegna dedicata agli incisori marchigiani organizzata dal comune di Tolentino. Nel 1994 l’Accademia dei Catenati gli ha dedicato una cartella artistica (edita da Sico) con riproduzioni di alcune opere a china, pastello, matita e litografie. Proprio in questa cartella, la moglie Maria Caltarelli e i figli Maria Paola, Giuliano, Donatella e Serena, ne tracciavano un commovente “ritratto”, ricordandolo – tra l’altro – come “un padre che era anche ‘artista’ nel senso che sapeva vedere delle cose, delle persone, dei paesi e dei paesaggi quello che alla maggior parte di noi sfugge, e con la matita, con il bulino, con il pennello sentiva l’esigenza di renderlo perché anche gli altri vedessero”.

© Alessandro Feliziani / Orizzonti della Marca

Nella foto in alto: G. Mainini, Nettando l’aratro, 1930

(Articolo pubblicato sul settimanale ORIZZONTI della MARCA n. 4 del 5 febbraio 2022)















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