Intervista all'on. Adriano Ciaffi. "La montagna ce la farà, ma serve un lavoro di squadra".

Eletto la prima volta alla Camera dei deputati nel 1968, all’età di 32 anni, l’avvocato maceratese Adriano Ciaffi è uno dei politici più noti delle Marche, la Regione di cui è stato anche presidente dal 1975 al 1978. Nella sua attività parlamentare, conclusa nel 1994 come Presidente della Commissione affari costituzionali di Montecitorio, è stato Sottosegretario al Ministero dell’Interno (ministro Oscar Luigi Scalfaro) nei due governi Craxi e nel sesto governo Fanfani. 

L’on. Ciaffi ha legato il proprio nome ad importanti leggi di riforma: il nuovo “Ordinamento delle autonomie locali” (Legge 142 dell’8 giugno 1990) e la “Elezione diretta del Sindaco”. (legge 81 del 25 marzo 1993), delle quali è stato relatore. Proprio per questa sua lunga esperienza politica, nonché per essere stato protagonista e testimone della feconda stagione di trasformazione delle Marche da agricole ad industriali, Orizzonti della Marca lo ha intervistato su temi oggi di attualità.

Onorevole, lei che ha ricoperto ruoli istituzionali e livello nazionale e locale, oltre ad essere stato a lungo parlamentare, ricorda momenti di “crisi della politica” come quello che stiamo attraversando?

Le crisi della politica ci sono sempre state e sono sintomatiche dei momenti di trasformazione. Addirittura negli scavi di Pompei sono stati trovati graffiti contro i governanti dell’epoca; il detto “Piove governo ladro” è antico come il mondo...

Oggi c’è qualcosa di diverso?

Tutte le crisi della politica sono diverse, ognuna è figlia del proprio tempo.

Quali sono le cause della situazione attuale?

Si sono sovrapposti grandi fenomeni: la fine delle storiche ideologie e delle rappresentanze, che hanno comportato la frammentazione dei partiti, poi la crisi ambientale e la globalizzazione, infine l’irrompere della digitalizzazione, che ha rivoluzionato modi e tempi della convivenza.

Cosa bisogna fare, dunque, per avere una buona politica?

Una buona politica richiede grande capacità culturale, di mediazione e di saper stare insieme nella comunità locale e globale, evitando convenienze contingenti e di parte.

Cosa del passato andrebbe recuperato?

L’associazionismo. Oggi mancano quelle forme dello stare insieme che erano anche occasioni di crescita culturale e politica. C’è bisogno di ancoraggi valoriali e identitari. Questi oggi non emergono perché si fa strada un populismo radicato nella protesta del momento e, per questo, fragile ed effimero.

Una legislazione spesso lacunosa, confusa, sempre alla rincorsa dell’emergenza è dovuta anche alla mancanza di solida formazione politica?

La carenza di politici di larghe vedute e di competenza tecnico-legislativa è ricorrente. D’altra parte, però, sono i cittadini che scelgono i loro rappresentanti nelle istituzioni.

Nelle elezioni c’è anche il fenomeno dell’astensionismo, che ha raggiunto percentuali preoccupanti…

È vero, occorre recuperare il rapporto tra elettori ed eletti. D’altronde, in democrazia, della politica e dei politici “si può parlar male, ma non se ne può fare a meno”...

Perché oggi non si riescono a fare le grandi riforme di cui sempre si parla?

Le grandi riforme hanno bisogno di una classe dirigente capace, ma soprattutto si possono fare quando è maturata la necessaria coscienza civile. Cioè quando la necessità di riformare un determinato istituto risulta ampiamente condivisa. Una condivisione maturò, ad esempio, quando nella regione e in parlamento affrontammo, non senza dissensi e lotte, la riforma dei contratti agrari, varata nel 1982. Identica condivisione maturò nel 1990 con la riforma degli enti locali (comuni e province), che sostituì la sorpassata legge del 1934.

È per questo motivo, secondo lei, che nel 2016 è stata bocciata con il referendum la riforma voluta dal governo Renzi?

Sostanzialmente sì. Come si suol dire, era stata messa “troppa carne al fuoco”, ma soprattutto quella riforma non era giunta al punto di maturazione necessaria per essere sufficientemente condivisa.

Un’altra riforma rimasta a metà è quella delle province, che sono state depotenziate, anche nella rappresentanza. Quale futuro vede per l’ente provincia?

Le province rimangono uno snodo essenziale nell’architettura amministrativa dello stato democratico. Come nel resto d’Europa esse hanno una radice storica che nel tempo le ha identificate come comunità di più comuni. Fino a quando non sarà cambiata la Costituzione, va ricostituito il rapporto diretto tra amministratori provinciali e cittadini, per un governo ottimale di area vasta, intermedio tra Comuni e Regione. 

Insieme a Rodolfo Tambroni e Franco Foschi, lei è stato uno dei tre leader democristiani della provincia di Macerata. C’era “competizione” tra voi? 

Innanzitutto eravamo amici e tutti e tre avevamo alle spalle diverse esperienze associative, cattoliche e sociali, nonché una diversa formazione professionale.  Nella nostra attività politica, all’interno della DC e delle istituzioni, era logico che ciascuno portasse il proprio contribuito, pur nella comunione di valori. Quella che lei chiama “competizione” poteva, semmai, sussistere nella progettualità, non certo nello spirito di servizio verso le istituzioni e verso il partito. Competere, comunque, ha concorso a maggiori risultati, creando un valore aggiunto per il territorio.

A proposito di “valore aggiunto”. Non crede che ce ne sia bisogno anche nella ricostruzione post terremoto?

Sarà fondamentale e ritengo che le premesse ci siano e, peraltro, sono sempre più evidenti. Il terremoto del 2016, per estensione territoriale e per entità di danni, non ha precedenti. Anche la fase di ricostruzione presenta una complessità non paragonabile con il 1997 e le calamità precedenti, comportando maggiori problemi giuridici e tecnici. La stessa interregionalità del sisma rende più complessa la compartecipazione tra Stato e Regioni. 

Sul piano tecnico e delle procedure sembra che sia stata imboccata la strada giusta... 

Il commissario Legnini, infatti, sta lavorando molto bene e, grazie anche alla sua competenza giuridica, oltre che amministrativa, è diventato un punto di riferimento importante per il territorio e per le comunità interessate. I finanziamenti ci sono, le capacità tecniche pure. Quindi la sfiducia, alquanto diffusa nel passato tra la popolazione, è ormai da accantonare.

Quindi lei è ottimista?

Sono ottimista: la montagna ce la farà. L’ottimismo, però, ha bisogno di essere supportato da un lavoro di squadra, dove ciascuno contribuisca a mettere in moto quell’economia necessaria a far crescere la comunità. Questo è il vero “valore aggiunto”, in grado di dare prospettive all’entroterra. 

Camerino quale ruolo può avere per la rinascita dell’entroterra?

La città di Camerino, con la sua posizione baricentrica nell’Appennino marchigiano, ha grandi potenzialità. Il punto di forza, che va ben oltre la città, è l’università. L’Ateneo ha reagito in modo esemplare alla sventura, mettendo in moto subito dopo il sisma tutta la propria capacità organizzativa e le risorse umane ed accademiche.  Nonostante quanto accaduto, in questi anni l’università è riuscita a conservare per qualità della ricerca e della didattica il primo posto tra i piccoli atenei. Le sue facoltà e i suoi centri di ricerca competono alla pari con altri blasonati atenei italiani e stranieri. Tutto questo proietta Camerino e il suo territorio in una dimensione interregionale. È un altro valore aggiunto per i comuni e le attività economiche del comprensorio.

Lei è considerato il “padre” della riforma del 1993 che ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci, attraverso una legge elettorale in grado di garantire maggioranze certe nei consigli comunali. La struttura di quella riforma potrebbe essere in futuro applicata anche per il governo nazionale?

Non direi, perché quella formula si basa sulla conoscenza diretta tra cittadini e candidato sindaco. Su scala nazionale mi sembra difficile che tale rapporto diretto possa sussistere. Si rischierebbe di dare eccessivo peso all’immagine pubblica che i cittadini ricevono attraverso i mass media. In definitiva c’è il rischio che venga favorito il politico più abile nella comunicazione e più dotato di mezzi di propaganda.

A cinquant’anni dalla loro istituzione, ritiene che le Regioni a statuto ordinario abbiano ancora una loro validità?

Nella Costituzione le regioni sono state previste per alleggerire la centralità dello Stato, favorendo le specificità territoriali e l’autodeterminazione su specifiche materie. Il principio è tuttora valido e le disfunzioni nel tempo sono fisiologiche. Si tratta solo di aggiornare l’ordinamento regionale alle mutate condizioni e calibrare meglio il rapporto tra Stato e Regioni nell’ambito dell’assetto costituzionale, in una visione europea.

© Alessandro Feliziani / Orizzonti della Marca

(Intervista pubblicata sabato 11 dicembre 2021 sul settimanale ORIZZONTI della MARCA n. 47-2021)








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