Intervista al cardinale Edoardo Menichelli. "Il senso di comunità è tutto da riscoprire".

14 febbraio 2015, papa Francesco impone la berretta cardinalizia a mons. Edoardo Menichelli.


Il cardinale Edoardo Menichelli è nato 82 anni fa a Serripola di San Severino. Dopo la licenza ginnasiale segue la propria vocazione sacerdotale studiando filosofia e teologia presso il Pontificio seminario regionale Pio XI di Fano e successivamente consegue la licenza in teologia pastorale alla Pontificia Università Lateranense a Roma. Ordinato sacerdote nel 1965, dopo alcuni anni come vice parroco a San Severino si trasferisce a Roma. Per oltre vent’anni (fino al 1991) presta servizio in Vaticano come officiale al Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, quindi per altri tre anni lavora nella segreteria della Congregazione per le Chiese Orientali e svolge anche funzioni di segretario particolare del prefetto della medesima congregazione, il cardinale Achille Silvestrini. Nel frattempo è anche collaboratore per l’ufficio del Consiglio familiare della Facoltà di Medicina del Policlinico Agostino Gemelli, docente di etica professionale alla scuola per infermieri e cappellano in una clinica di Roma.

Nel 1994 papa Giovanni Paolo II lo nomina arcivescovo metropolita di Chieti-Vasto, dove rimane dieci anni. Quindi dal 2004 al 2017 è arcivescovo metropolita di Ancona-Osimo. Per lo stemma episcopale sceglie il motto “Sub Lumine Matris”.

Creato cardinale da Papa Francesco nel Concistoro del 14 febbraio 2015, nello stesso anno è nominato membro della Congregazione per le Chiese Orientali e del Tribunale della Segnatura Apostolica. Attualmente è anche assistente ecclesiastico nazionale dell’Associazione medici cattolici (AMCI) e del Centro italiano femminile (CIF).

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Eminenza, quattro anni fa, dopo che il Santo Padre ha accolto la sua rinuncia al governo pastorale dell'arcidiocesi di Ancona per raggiunti limiti di età, lei è tornato a vivere a San Severino, che aveva lasciato più di cinquant’anni fa. Come ha trovato cambiata la sua città natale?

In questi decenni è cambiato anche il mondo. Ricordo che quando ero ragazzo, ma anche negli anni in cui già ero giovane sacerdote, nei giorni di pioggia sotto i bei portici di piazza del Popolo non si riusciva a camminare per quanta gente c’era. Oggi, con qualsiasi tempo meteorologico, non c’è quasi nessuno. Si è persa, qui come altrove, la “voglia di comunità” ed ha preso il sopravvento un forte individualismo. Le parrocchie non sono più punto di riferimento come un tempo e sul versante sociale si nota grande “stanchezza culturale”. La pandemia scoppiata nel 2020 non ha creato isolamento, lo ha solo smascherato, poiché c’era già.

Lei è sempre stato impegnato nella pastorale familiare, tanto che per tale sua particolare attenzione è stato membro nel 2014 dell’Assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi sulla famiglia. Cosa rappresenta la famiglia per la Chiesa di oggi? Quanto ha contato la sua esperienza personale di bambino rimasto orfano di entrambi i genitori a soli 11 anni?

Non credo che ci possa essere una correlazione con la mia storia personale. Invece, già da giovane preste, ho sempre visto la famiglia quale dono indispensabile di Dio alla società. Ho sempre pensato che la vita pastorale sia prima di tutto incontro con le persone e la realtà familiare ne è il luogo privilegiato. Sin da quando ero a Roma, vivendo in una parrocchia, mi sono sempre impegnato, sia nella preparazione dei fidanzati al sacramento del matrimonio, sia accompagnando le famiglie nell’affrontare possibili problemi. Da tutto questo ho tratto grande giovamento anche nell’esercitare, in seguito, il ministero episcopale. 

Lei è stato vescovo in Abruzzo e nelle Marche. Sono state esperienze diverse?

Diverse perché le realtà, Chieti ed Ancona, sono diverse per costume sociale, storia, tipologia sociale. Anche la stessa religiosità popolare è percepita in modo diverso, più forte in Abruzzo, molto meno nelle Marche. Qui, in varie aree si è persa quasi del tutto. Sono state, quindi, due esperienze diverse, ma entrambe molto belle ed educative.

Quali sono i ricordi più vividi dei tredici anni trascorsi come arcivescovo di Ancona-Osimo?

Sono tanti. È stata una esperienza lunga e coinvolgente. Mi piace soprattutto ricordare il Congresso eucaristico nazionale del settembre 2011. Un evento che ha coinvolto, già dalla fase preparatoria, non solo tutta la comunità diocesana, ma l’intera realtà territoriale. Anche i diversi problemi affrontati nel corso degli anni, tuttavia, sono stati opportunità di crescita. Ricordo la crisi della cantieristica, un settore economico particolarmente importante per Ancona e tutto il suo vasto hinterland, che ha visto me e l’intera Diocesi parti attive nella vicinanza alle tante maestranze direttamente interessate.

Ancona è anche la sede della politica regionale. Come sono state le relazioni con le varie istituzioni?

Essere arcivescovo nella città capoluogo di regione comporta ovviamente relazioni con una società più complessa e con tutte le istituzioni che vi hanno sede e che vi operano, non solo politiche. Ho sempre cercato di creare relazioni costruttive con tutti nella convinzione che da una buona relazione può nascere sempre un’ottima collaborazione per il bene comune.

Ancona viene spesso accusata di essere “Anconacentrica”, depauperando di servizi i territori più lontani, con ripercussioni sullo spopolamento dell’entroterra. Lei ha avuto questa percezione?

Direi proprio di no. Non ho mai avuto una sensazione di “imperiosità” da parte delle istituzioni anconetane. Il problema dello spopolamento dell’entroterra ha motivazioni storicamente diverse e complesse che richiederebbero un dibattito molto ampio. Ciò che mi sento di poter affermare è la necessità di cercare un coinvolgimento di tutti, non solo della politica, per migliorare il rapporto e le interconnessioni tra le realtà territoriali della costa e quelle dell’entroterra delle Marche.

Lo spopolamento dell’entroterra può avere riflessi su una nuova “geografia” delle Diocesi marchigiane?

Non vedo un collegamento diretto tra le due questioni e soprattutto non può esserci una soluzione “geografica” per l’assetto delle Diocesi marchigiane. Esse hanno tutte una loro storia che non può essere disconosciuta. Semmai può essere il mutato senso di religiosità che si avverte nella società a sollecitare una riflessione della collocazione e dell’impegno pastorale.

Tutto il vasto entroterra fa anche i conti con le conseguenze del terremoto del 2016 e con una ricostruzione post-sisma che procede lentamente. Come vede questa situazione?

Territorio, ricostruzione, servizi sono problematiche che si interconnettono. Non sta a me argomentare, ma sono questioni che la popolazione ovviamente avverte. Bisogna, però, chiedersi cosa si vuol fare dell’entroterra. Ricostruiamo casa da vivere o case da “ammirare”? Credo che le risposte vadano ricercate puntando maggiormente sulle politiche della solidarietà.

Nelle recenti elezioni amministrative i settempedani hanno riconfermato con largo consenso Rosa Piermattei alla carica di sindaco di San Severino per altri cinque anni. Quale richiesta si sente di fare pubblicamente per il bene della città?

Ogni tempo ha le proprie esigenze, ma in questo momento inviterei l’amministrazione comunale a porre grande attenzione alla cultura di comunità, alla solidarietà e alla partecipazione. Questi tre elementi si stanno perdendo ovunque e meritano di essere rimessi in circolazione. Non costano in termini di soldi, ma richiedono un forte sforzo di orientamento per far riscoprire alla gente il valore di essere una comunità attiva.

© Alessandro Feliziani /Orizzonti della Marca

(Intervista pubblicata sul settimanale ORIZZONTI della MARCA n. 41 del 30 ottobre 2021)

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