In attesa del “miracolo” (non solo marchigiano).
© Le Marche perdono altri due comuni e duemilacinquecento abitanti. Montecopiolo e Sassofeltrio, infatti, hanno seguito la sorte di altri sette comuni del Montefeltro passati alcuni anni orsono a far parte amministrativamente dell’Emilia Romagna e più precisamente della provincia di Rimini. Formalmente il passaggio avverrà durante l’estate, dopo che la legge, approvata definitivamente dal Senato lo scorso 25 maggio, sarà stata promulgata e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale. Sta di fatto, però, che quei duemilacinquecento marchigiani, che da sempre si sentivano romagnoli, ora romagnoli lo diventano davvero e a tutti gli effetti.
La questione, su cui vale la pena riflettere, è individuare la causa che abbia spinto la popolazione dei due comuni a compiere la scelta di abbandonare le Marche. È difficile credere che quattordici anni fa – anche su questo enorme lasso di tempo trascorso si potrebbe discutere – gli elettori di Montecopiolo e Sassofeltrio, nell’esprimersi con un referendum (in verità non troppo partecipato), abbiano agito solamente sulla spinta di un sentimento di vicinanza culturale con la terra di Romagna. Il motivo di fondo – peraltro alla base della stessa richiesta di referendum – è stato il sentirsi trascurati dalla regione e dalla provincia di appartenenza.
Una sensazione che, in maniera più o meno forte, è sentita un po’ da tutte le “comunità di confine” e ovviamente anche nelle Marche. Anzi, nelle Marche il malcontento sembra più diffuso di quanto si possa immaginare e, con accenti peraltro non troppo dissimili, lo si riscontra lungo l’intera fascia dell’entroterra, dal nord (il Montefeltro è passato dalle parole ai fatti) al sud.
Benché il problema sia noto da decenni, le istituzioni politiche non hanno saputo correggere le storture che hanno portato all’impoverimento dell’entroterra. Un impoverimento demografico innanzitutto, che si tende a presentare come “causa” dell’impoverimento economico e dei servizi, anziché il contrario. L’abbandono delle zone interne da parte della popolazione più giovane, infatti, non è forse “l’effetto” della mancanza di un sistema economico sufficiente a garantire lavoro? Lo stillicidio, con cui il territorio viene progressivamente depauperato di servizi, non è forse una causa ancora più evidente che induce ad abbandonare i propri paesi, oltre a non invogliare nuove iniziative imprenditoriali?
Ciò che sconcerta è il fatto che questi temi sono stati e continuano ad essere al centro di convegni e discussioni ad ogni “tavolo” politico, senza che nulla cambi. Che si tratti di cattiva volontà lo si può escludere. Piuttosto ciò che si nota è l’incapacità. Non delle persone (anche se esempi di improvvisazione amministrativa non mancano), ma del sistema. Un sistema politico e normativo incancrenito nella sua farraginosità, che non consente più di adottare decisioni rapide e farle seguire da azioni coerenti. Anche per questioni assai semplici, come – solo per rimanere sull’argomento – fare una legge per dare esecuzione alla volontà espressa dai cittadini di Montecopiolo e Sassofeltrio nell’ormai lontano 2007. Ci sono voluti, invece, ben quattordici anni, con un iter interminabile. Nella discussione al Senato quasi tutti gli intervenuti hanno sottolineato questo eccessivo lasso di tempo, ma nessuno si è domandato come evitare inutili lungaggini. Anzi, un senatore – quasi volendo far ricadere la colpa sugli stessi cittadini – ha addirittura proposto di non proseguire nella procedura “non potendosi dar credito ad un referendum vecchio di quattordici anni…”. Sulla stessa linea - peraltro con una argomentazione fuori da ogni logica costituzionale – un altro parlamentare ha fatto presente che nel 2007 le Marche erano amministrate dal centrosinistra, mentre oggi sono a guida centrodestra e pertanto “bisognerebbe dar tempo a quelle popolazioni di potersi ricredere”.
Nessuno, invece, ha colto l’occasione del dibattito per cercare di approfondire le ragioni che spingono sempre più spesso popolazioni di determinati comuni a chiedere il passaggio da una regione all’altra o da una provincia all’altra. Solo il senatore marchigiano Giuliano Pazzaglini ha sfiorato l’argomento sottolineando che scelte come quelle di Montecopiolo e Sassofeltrio “rappresentano sempre il fallimento della politica locale”, mentre un suo collega – riferendosi ai tempi lunghi del procedimento – ha giudicato l’iter della legge “… una delle espressioni peggiori della lentezza della burocrazia e dell'atteggiamento ostruzionistico …..”.
Burocrazia e ostruzionismo, due aspetti deleteri della pubblica amministrazione e della politica. Le stesse “ordinanze speciali” del Commissario per la ricostruzione post-sisma non sono forse dettate dalle necessità di superare difficoltà burocratiche insite in tante norme che, finalizzate a moltiplicare i controlli (teoricamente utili), finiscono per immobilizzare ogni cosa? Le lungaggini che si registrano nel maceratese, per individuare la nuova discarica provinciale per i rifiuti, non risentono forse dell’ostruzionismo tra enti cointeressati e forze politiche contrapposte? Frapporre volontariamente ostacoli, in attesa di circostanze più favorevoli al proprio tornaconto, è diventata una pratica frequente e l’obiettivo sembra essere solo quello di prendere tempo.
Le riforme, che l’Italia si è imposta di fare nell’ambito del “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, e gli ingenti investimenti da realizzare con i fondi europei dovranno essere portati a compimento entro il 2026. Il tutto in un quinquennio. Un periodo teoricamente sufficiente, ma anche un arco di tempo teoricamente improbabile per il “modus operandi” che ci contraddistingue. Se la scommessa sarà vinta, nel 2026 potremo parlare di “vero miracolo”, forse anche più importate del “miracolo economico” conosciuto dall’Italia sessant’anni fa.
© Alessandro Feliziani / Orizzonti della Marca
(Articolo pubblicato sul settimanale Orizzonti della Marca del 5 giugno 2021 n. 22)
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