Tra cultura e anticultura.


© Alcune settimane fa il direttore di questo giornale, nel dare il “visto si stampi” al numero di Orizzonti appena impaginato si interrogò ad alta voce: “Qualcuno ci obietterà che c’è troppo cultura?”. La risposta fu: “Meglio tanta cultura che nessuna cultura”.

Mi venne subito in mente che ormai sui giornali c’è tanto “fruffru”, tanto chiacchiericcio di politici che parlano o straparlano e per la cultura c’è sempre meno spazio.

Eppure la cultura ci fa essere migliori, come singoli e come società. Ci fornisce il paradigma per discernere sui fatti della contemporaneità e resta l’unico carburante di una umanità che voglia definirsi tale.

Cultura non è sinonimo di letteratura, di musica o di pittura. Questi rappresentano solo strumenti di trasmissione della cultura umanistica da una generazione all’altra, oltre che posti di lavoro e ricchezza economica per milioni di persone le quali si guadagnano da vivere con le arti, nel mondo dell’editoria, del teatro, del cinema. La crisi causata dal coronavirus ha sfatato, speriamo una volta per tutte, il detto secondo cui “con la cultura non si mangia”. Si mangia, eccome! Perché con la cultura si crea anche reddito e sviluppo. Uno sviluppo non solo economico, ma anche interiore, capace di elevare la persona e combattere l’arretratezza e l’inciviltà.

Lo aveva capito Adriano Olivetti, il quale per dare un senso alla propria impresa e garantire una crescita, anche sociale, alla sua industria di macchine per scrivere, chiamò a collaborare con lui e coi i suoi ingegneri alcuni dei maggiori scrittori, artisti e intellettuali dell’epoca. Intorno alle sue fabbriche sorsero le “comunità”, con biblioteche, asili nido, sale cinematografiche. Olivetti voleva garantire benessere cercando di far sviluppare il senso di cultura dei propri dipendenti e dei loro figli.

Per avere la cultura necessaria a costruire una società migliore non occorre laurearsi. Il “pezzo di carta” offre le necessarie competenze per essere un buon medico, un valente avvocato o magistrato, un bravo ingegnere. La cultura nel suo significato più ampio è qualcosa che irrobustisce l’animo, prima ancora che la mente. 

Angelo Rizzoli, cresciuto in un orfanatrofio e senza titolo di studio, aveva un innato senso degli affari e diede vita ad una grande impresa editoriale, a sua volta fucina di cultura. Benché lui non sapesse distinguere Tolstoj da Dostoevskij - anzi, si dice che li ritenesse la stessa persona - ideò la BUR (grafica spartana e prezzo popolare) quale strumento di diffusione della cultura letteraria per l’Italia che si stava risollevando dalle macerie della guerra.

La cultura di Rizzoli era quella che non si forma sui libri, ma nasce spesso da esperienze di vita o che si assimila dalle tradizioni e dai valori della propria terra. È quella di chi sa costruire il proprio futuro facendo tesoro del proprio passato, come ad esempio Orlando Simonelli e i suoi “eredi”, che da un garage di Cessapalombo hanno saputo far nascere un’azienda diventata leader nel mondo.  Un’impresa in continuo dialogo con culture diverse, ma che resta ben piantata nella media vallate del Chienti, a dimostrazione che per muoversi basta far viaggiare le idee. 

La riflessione del direttore di Orizzonti della Marca, che ho ricordato sopra, mi è tornata di nuovo in mente dopo i fatti tragici di Minneapolis ed ho pensato che è proprio la mancanza di cultura a provocare sempre i danni peggiori.

Non c’è cultura, infatti, in quel poliziotto che per interminabili minuti ha premuto il suo ginocchio sul collo di George Floyd, fino a farlo morire. Non c’è cultura nella decisione – ispirata forse da un tornaconto di marketing – della piattaforma streaming HBO di rimuovere dal proprio catalogo il film “Via col vento”. E così non c’è cultura in chi ha decapitato la statua di Cristoforo Colombo, né in coloro che hanno imbrattato il monumento a Indro Montanelli, invocandone poi la rimozione dai giardini di Milano a lui intitolati. 

Non esiste una cultura della devastazione. Chi distrugge vive nella barbarie e conosce solo la violenza. L’opera di distruzione è la peggiore “anticultura”. È mancanza di memoria del passato, che rende inadeguati alla comprensione del presente e incapaci a costruire il futuro.

Coloro che distruggono sono sempre i più pericolosi. E se abbattere una statua o censurare un film fa molto rumore mediatico, distruggere con la fatua illusione di saper ricostruire meglio è a volte ancora più dannoso. Si guardi – per rimanere nel nostro piccolo territorio – la “demolizione” dei piccoli tribunali con la prospettiva di migliorare il funzionamento della giustizia. Oppure il progressivo depauperamento dei piccoli ospedali con l’intento di migliorare i servizi sanitari. O ancora l’eliminazione dei plessi scolastici nei comuni più piccoli e disagiati con la prospettiva di fornire in scuole più grandi ed affollate una più efficace funzione pedagogica agli alunni. Ebbene, oggi vediamo come l’amministrazione della giustizia non abbia trovato alcun giovamento; il risultato ottenuto sulla sanità pubblica lo abbiamo sperimentato in questi mesi di pandemia; la scuola si avvia ad attraversare il prossimo autunno difficoltà logistiche ed organizzative al momento inimmaginabili. La storia è maestra, ma purtroppo non per tutti. Auguriamoci che lo diventi almeno la storia dell’oggi.

© Alessandro Feliziani / Orizzonti della Marca

(Articolo pubblicato sul settimanale ORIZZONTI della MARCA n.24 del 20 giugno 2020) 


Commenti

Post più popolari