Una regione in bici, ma nell’entroterra è duro “pedalare”.
© La nostra regione ha affidato per un biennio al campione di ciclismo Vincenzo Nibali il ruolo di testimonial del turismo outdoor e su bike e del rilancio delle aree terremotate delle Marche. È stato quindi in perfetta sintonia con tale indirizzo di politica regionale che la prima domenica di settembre decine di appassionati della bicicletta di varie località della vallata del Chienti si sono messi ai pedali lungo la vecchia strada statale 77 per raggiungere, dalle rispettive località di residenza, il centro di Muccia. Il concentramento di cicloamatori nel punto mediano dell’asse viario Foligno-Civitanova e dei due principali snodi stradali, per Camerino e Visso, è stato organizzato dal Comitato promotore della “CICLOVIA-77” costituitosi tre anni fa per chiedere alle istituzioni (Regione e Comuni) la realizzazione di un percorso cicloturistico lungo il tracciato dell’ex S.S.77.
La “pedalata” è stato un modo per richiamare i prossimi amministratori regionali a non trascurare questa vecchia arteria che, dopo il completamento della superstrada, avvenuto nel 2016, può svolgere ancora un ruolo importante per il territorio, incentivando proprio quelle funzioni di carattere turistico e di mobilità sostenibile, particolarmente utili all’economia dell’entroterra.
Come hanno più volte ribadito i due portavoce del comitato, Olimpio Bernardini e Alberto Marinelli, attraverso opere di manutenzione del piano stradale, adeguata segnaletica e messa in sicurezza nei tratti a traffico più elevato, la provincia di Macerata verrebbe ad avere la più lunga “ciclovia” dell’Italia centrale (130 km.) che, estendendosi dagli Appennini al mare, diventerebbe un importante “canale di collegamento” tra i percorsi cicloturistici di Umbria, Toscana e Lazio con la “ciclovia adriatica”, già prevista da un protocollo d’intesa firmato nel 2019 al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti dalle sei regioni costiere.
L’iniziativa, che si è inserita non a caso nel periodo elettorale per il rinnovo del Consiglio regionale delle Marche, è stata a suo modo una manifestazione elettorale “al contrario”. Non un politico che “promette” da una tribuna, ma cittadini che si riuniscono per manifestare un’esigenza a chi è deputato a fornire risposte o si candida al governo della cosa pubblica.
Sarebbe questo il modo più corretto per un dialogo politico, ma ormai da tempo non è così. Le stesse elezioni regionali sono estremamente politicizzate, tanto da diventare una sorta di “referendum” pro o contro il governo. Argomenti di politica nazionale hanno preso il sopravvento, anche per una assenza di analisi costruttiva dei problemi locali. Infrastrutture, riequilibrio territoriale, lotta allo spopolamento sono parole che si ripetono da anni. Le popolazioni delle aree collinari e montane vorrebbero che non fossero solo “titoli” di temi elettorali destinati a non avere alcun “svolgimento”.
Nelle manifestazioni, cui prendono parte anche leader politici nazionali, si ascoltano per lo più attacchi al governo o difese del suo operato, ma i problemi delle Marche - che in gran parte coincidono con i problemi delle aree interne – restano ai margini. Anche la sanità, nonostante il riconosciuto fallimento delle politiche di depauperamento dei servizi nell’entroterra perseguite negli ultimi decenni, non trova un adeguato dibattito su come invertire la rotta.
Le aree interne delle Marche sembrano non attrarre la politica. Peraltro quest’anno – complice il Codiv-19, che ha fatto slittare le elezioni regionali all’ultima domenica d’estate – la campagna elettorale si è “adeguata” alla stagione, concentrando comizi, confronti tra candidati e manifestazioni di propaganda nei centri della costa e perfino negli stabilimenti balneari. L’entroterra, con i suoi pochi abitanti e quindi pochi voti da conquistare, è stato semidimenticato anche negli “appelli” agli elettori.
La crescente marginalità delle aree interne in relazione al loro peso elettorale rischia di riflettersi direttamente anche sulla rappresentanza dei territori nel Consiglio regionale. La coincidenza delle circoscrizioni elettorali con i territori provinciali, infatti, proprio per le delimitazioni amministrative all’interno del territorio marchigiano, dove ogni provincia comprende una parte di area appenninica e una parte di area costiera, rende potenzialmente favoriti i candidati dei centri più popolosi e del litorale, i quali non vivono direttamente i problemi dell’entroterra.
Le regioni a statuto ordinario compiono cinquant’anni. Benché previste dalla Costituzione del 1948, ci sono voluti più di vent’anni per approvare le leggi istitutive con un ampio dibattito politico concentratosi soprattutto negli anni Sessanta. Il 30 ottobre 1962, l’allora ministro dell’interno, Paolo Emilio Taviani, uno dei maggiori sostenitori delle regioni, in un intervento alla Camera dei deputati sostenne che la loro istituzione rispondeva ad un’esigenza propria di una società italiana in trasformazione. Disse: “In un momento in cui l’azione dello Stato, per il naturale accrescersi e complicarsi delle sue funzioni, si manifesta per varie ragioni inadeguata al ritmo delle esigenze sempre crescenti, direi che questa è una prova ulteriore che le Regioni possono determinare un maggiore adeguamento degli interventi pubblici alle necessità locali”. Quell’auspicio, purtroppo, sembra caduto nel vuoto. Le regioni non hanno adempiuto – almeno nelle Marche – ad un compito essenziale: lo sviluppo equilibrato del proprio territorio. Anzi, la politica sui servizi (sanità in primis) ha contribuito semmai al disequilibrio.
Anche secondo il giurista Sabino Cassese, le regioni non hanno saputo adempiere ai compiti auspicati. In un editoriale pubblicato sul Corriere della sera lo scorso 24 maggio, l’ex giudice della Corte costituzionale, scriveva: “Erano state disegnate come enti con compiti legislativi, perché esercitassero normalmente le loro funzioni amministrative delegandole a comuni e province. Sono invece diventate corpi amministrativi, anche per colpa dell’alluvionale, straripante legislazione nazionale. Le leggi regionali sono poche, interstiziali e per lo più ripetitive, in barba alla differenziazione che l’autonomia comportava”. Inoltre, “dovevano essere la palestra per la formazione di una classe dirigente politica nazionale, che sapesse gestire oltre a dilettarsi di schermaglie e intrighi politici. La fucina della nuova politica ha funzionato solo in pochi casi. I politici regionali si sono allineati a quelle grandi forze centralizzatrici che sono i partiti politici”.
Tra i tanti problemi del paese c’è quindi in Italia anche un problema regioni. L’istituzione regionale va almeno ripensata, sia a livello di funzioni, sia nella sua operatività e, non ultimo, sotto l’aspetto della rappresentanza dei territori.
© Alessandro Feliziani / Orizzonti della Marca
(Articolo pubblicato sul settimanale ORIZZONTI della MARCA n. 34 del 12 settembre 2020)
Commenti
Posta un commento