Alla ricerca di una nuova geografia.


 






© Alcuni anni fa un gruppo di sette comuni dell’entroterra montano pesarese avviarono con successo una complessa procedura amministrativa per passare dalle Marche all’Emilia Romagna. A dare forza a quella scelta, confermata poi con un referendum popolare, non fu solo la vicinanza culturale con la confinante terra romagnola, ma anche – forse soprattutto – il sentirsi estranei in una regione “anconacentrica” incapace di assicurare i necessari servizi in quell’area dell’alto Montefeltro.

Dopo che nel 2009 il confine amministrativo delle Marche fu definitivamente arretrato, per quelle popolazioni la situazione non cambiò sostanzialmente granché. Se prima quel nucleo di piccoli comuni era una sorta di buzzattiana “Fortezza Bastiani” del nord ovest delle Marche, dopo il cambio di regione aveva finito per assumere lo stesso “ruolo” nell’estremo sud dell’Emila Romagna. 

Questa, del resto, è la situazione che in Italia vive la gran parte delle terre di confine e “marginali”. Un problema tutt’altro che nuovo, già ben presente a metà del secolo scorso nel dibattito politico dell’allora giovane Stato repubblicano. Lo strumento per intervenire il Parlamento ritenne di poterlo individuare nelle regioni, quali unità amministrative capaci di governare nei rispettivi ambiti con obiettivi di riequilibrio territoriale. Ebbene, proprio su questo punto, le regioni hanno fallito. Chi più, chi meno. 

Nelle Marche e nel territorio dove Orizzonti è più diffuso, il problema è oggi maggiormente sentito e non c’entra il terremoto del 2016, né quello del 1997.  La disattenzione alla questione dei territori meno densamente abitati esisteva già da decenni. Il tentativo di affrontare il problema con le comunità montane si è rivelato inappropriato, così come si dimostra del tutto impropria a questo scopo la strategia di associazionismo tra piccoli comuni su cui da qualche anno Stato e regioni stanno spingendo. Ancora più devastante appare l’idea – che per ora sembra fortunatamente accantonata – delle macro-regioni. Se cinquant’anni fa le funzioni e gli obiettivi assegnati alle regioni fossero stati attribuiti alle già esistenti province, forse i risultati sarebbero stati diversi, magari anche attraverso una loro “ridefinizione” sulla carta geografica. 

Del resto un errore nella costituzione delle regioni come unità amministrative è stato – almeno per alcune – quello di mantenerle nelle loro configurazione storica secondo i confini naturali segnati dai crinali dei monti e dai fiumi. Anche molte province presentano oggi lo stesso “difetto”. Le comunità, infatti, non crescono più in ambiti territoriali disegnati dalla natura. La moderna mobilità non ha più barriere e le persone vogliono vivere dove poter lavorare e il lavoro si crea dove si presentano le condizioni di sviluppo. Depauperare progressivamente l’entroterra marchigiano di servizi, perfino di quelli più essenziali, è stata proprio l’azione inversa a quella necessaria a garantire un riequilibrio territoriale.

La situazione del nostro entroterra rischia di diventare drammatica e l’undicesima legislatura regionale delle Marche, che prende ufficialmente avvio lunedì prossimo (19 ottobre), avrà un compito tutt’altro che facile. I necessari investimenti per energiche politiche territoriali non sono più alla portata della forza economica ed istituzionale della singola regione e solo una fattiva cooperazione con lo Stato potrà dare la spinta necessaria. Il primo passo è rappresentato dalla ricostruzione post-sisma, che dovrà essere la più rapida possibile e soprattutto realizzata secondo un’ottica di sviluppo per il futuro. Altro aspetto su cui la regione dovrà fare massima attenzione – affinché non ne rimanga esclusa – è il piano infrastrutturale nazionale annunciato a giugno dal governo per il rilancio dell’Italia. Tra le priorità indicate all’inizio dell’estate dal presidente del consiglio, Conte, figurava anche l’alta velocità della tratta ferroviaria Roma-Ancona.  La lista delle opere per la cosiddetta “Italia veloce”, però, sta subendo in queste settimane un continuo “taglia e cuci” e la regione Marche dovrebbe fare del tutto – unendo magari le forze con la regione Umbria – affinché l’asse ferroviario tra la capitale e il capoluogo marchigiano non venga accantonato. A beneficiarne non sarebbe solo Ancona e la Vallesina, ma tutta la dorsale appenninica del centro Italia e i territori dei due versanti. Si pensi a cosa potrebbe rappresentare in termini di benefici alla mobilità dell’entroterra maceratese una stazione ad alta velocità a Foligno, stante la interconnessione con la superstrada Val di Chienti. Senza dimenticare poi l’aeroporto internazionale dell’Umbria situato nelle vicinanze di Assisi, che già nel più recente passato e fino alla vigilia della pandemia era diventato lo scalo di riferimento per la dorsale marchigiana compresa tra l’entroterra maceratese e l’area del fabrianese. La geografia socio-economica si evolve nel tempo. A rimanere dentro gli schemi rigidi del passato non solo può risultare anacronistico, ma si rischia di provocare effetti dannosi. © Alessandro Feliziani / Orizzonti della Marca

(Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale Orizzonti della Marca n. 39 del 17 ottobre 2020)


Commenti

Post più popolari