A 50 anni da Piazza Fontana “non possiamo più dire di non sapere”.

 

© Alcune settimane fa su queste pagine Fiorella Paino e Giuseppe De Rosa hanno ricordato il trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989). Un evento che ha portato alla riunificazione della Germania, ma ha soprattutto innescato un cambiamento della storia d’Europa e del mondo. Quelle picconate – immortalate in tante foto diventate storiche – date trent’anni fa da migliaia di giovani berlinesi a quel muro che li aveva tenuti prigionieri, hanno aperto uno squarcio anche nella nebulosa storia d’Italia di quei due decenni. La caduta del Muro, che nell’arco di appena due anni portò alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, da parte italiana può essere ricordata anche come la fine di una situazione internazionale che era stata a sua volta causa di fondo (ma questo lo si scoprirà molto più tardi) di attentati, tentativi di golpe e stragi che hanno funestato per anni l’Italia e che hanno avuto nel 12 dicembre 1969 (strage di Piazza Fontana a Milano, 17 morti e 90 feriti) la data simbolo dell’inizio del terrorismo nel nostro paese o almeno di quella parte di trame eversive che le cronache giudiziarie e le ricerche storiche hanno permesso di identificare come “strategia della tensione”. Una “strategia” figlia proprio della guerra fredda da Est e Ovest, di cui il Muro di Berlino è stato l’emblema. Una strategia della tensione che nei primi anni Settanta sfiora anche Camerino con “la storia delle armi di Fiungo” (leggasi Orizzonti della Marca n. 37 del 21 settembre scorso), e in cui può inquadrarsi nel 1978 anche il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Perché in fondo, per gli “strateghi”, gli estremisti di destra o di sinistra sono stati solo manovalanza da usare all’occorrenza e in modo intercambiabile.

Uno dei maggiori studiosi italiani del Novecento, lo storico Angelo Ventrone, docente di storia contemporanea all’università di Macerata e autore di diversi saggi sul terrorismo in Italia, intervenuto giorni fa a Macerata all’incontro “Educare alla democrazia” promosso – proprio a 50 anni da Piazza Fontana – dall’Associazione nazionale mutilati ed invalidi di guerra in collaborazione con il Dipartimento di scienze politiche del locale ateneo, ha ricordato come all’indomani della seconda guerra mondiale, “l’Italia fosse stretta nella tenaglia della guerra fredda tra Usa e URSS. Inoltre il nostro paese era una linea di confine tra regimi comunisti e regimi filo-occidentali, nonché tra Europa e Medio Oriente e per questo al centro di una forte tensione internazionale”. Va poi ricordato che in Italia c’era anche il maggiore partito comunista d’occidente, visto oltreoceano come una minaccia agli equilibri tra Est ed Ovest. Le inchieste giudiziarie hanno permesso di scoprire, pur con anni di ritardo, come gruppi estremisti di destra fossero allora “usati” – con la copertura di “infedeli” uomini dei servizi segreti in collegamento con forze straniere – per creare tensione nel paese. In primo luogo “armando loro a mano”; poi, attraverso depistaggi, facendo cadere i sospetti circa la matrice delle stragi e degli attentati (molti peraltro fatti fallire all’ultimo momento) su anarchici e gruppi della sinistra al solo scopo di tenere lontano dal governo il Pci. 

Anche se il 1969 ha segnato l’inizio del periodo più nero del terrorismo in Italia, la “strategia della tensione” aveva preso le mosse molto prima, durante gli anni Sessanta con diversi attentati ai treni. La strage di Piazza Fontana è quella che per l’impatto emotivo suscitato nella nazione è rimasta nel ricordo collettivo, forse ancora di più della strage alla stazione di Bologna del 1980 (85 morti e 200 feriti). Tra queste due stragi vanno ricordati i sanguinosi attentati di Gioia Tauro, Peteano, alla Questura di Milano, Piazza della Loggia a Brescia e il treno Italicus.

All’incontro di Macerata sono intervenuti tre magistrati che proprio in quegli anni sono stati protagonisti di alcune delle maggiori inchieste giudiziarie: Pietro Calogero, il quale indagò su Piazza Fontana; Vito Zincani, che è stato giudice istruttore sulla strage alla stazione di Bologna; Giuliano Turone, il quale - nel condurre l’indagine su Michele Sindona - giunse a scoprire nel 1981 la Loggia P2 e la penetrazione di questa negli apparati istituzionali e in “oscuri intrecci con il mondo della criminalità organizzata”. Tutti e tre hanno riferito di reticenze, omissioni, “deliberate falsificazioni” con cui si sono dovuti “scontrare” nel corso delle indagini e di cui hanno ampiamente scritto, insieme ad altri loro colleghi (Leonardo Grassi, Claudio Nunziata, Giovanni Tamburino e Giampaolo Zorzi), nel libro che il professor Angelo Ventrone ha curato per Donzelli editore, “L’Italia delle stragi”, da poche settimane nelle librerie. Un libro che, scritto da coloro che hanno avuto la possibilità di conoscere a fondo i fatti e i documenti, completa in qualche modo la ricostruzione di quel quadro di “storie torbide e sconvolgenti” che tra gli anni ’60 e ’80 sono state tramate a danno della Repubblica”. Trame di cui si occupa il giudice Giuliano Turone nel volume “Italia occulta” (edizioni Chiarelettere), dove l’autore – sulla base delle molteplici inchieste – parla di quella sorta di “antistato” annidatosi per anni nello Stato.

Le inchieste giudiziarie – ha chiosato Ventrone – sono giunte a conclusioni per le quali “non possiamo più dire di non sapere” e le ricerche storiche su quel periodo ci mostrano come “con gli strumenti democratici sia stato possibile resistere e su come oggi, attraverso una ricostruzione attenta e rigorosa, sia possibile sollevare il velo su quel torbido gioco di specchi”.  © Alessandro Feliziani

(Articolo pubblicato sul settimanale Orizzonti della Marca n. 49 del 14 dicembre 2019)

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