Le regioni compiono cinquant'anni (e non sono in buona salute).
© Quando si compiono 50 anni di età si coglie in genere l’occasione per una “speciale” festa di compleanno. Così anche per il cinquantesimo anniversario di matrimonio. Sono circostanze utili anche per tracciare un bilancio della propria vita e del proprio ménage familiare. A meno che, l’una o l’altro siano stati talmente disastrosi o attraversino una fase di serie difficoltà, da consigliare di far finta di nulla e continuare a tirare avanti.
Sembra essere proprio questa, peraltro, la situazione cui si assiste in questi giorni per i 50 anni di attività delle regioni italiane, che vivono da tempo in perenne conflittualità con lo Stato.
La storia di questi mesi di pandemia è davanti agli occhi di tutti. Basta sfogliare i giornali ogni giorno. Le pagine dedicate alla situazione sanitaria sono equamente suddivise. Da una parte pareri su pareri di scienziati e virologi; dall’altra “liti” tra governo e regioni su “chiusure, riaperture, zone rosse” e quant’altro. Ognuno vuole ragione sui propri orientamenti o provvedimenti, accusando l’altro di indebita ingerenza. La drammatica situazione determinatasi con la pandemia, ha reso per la prima volta plateale la contesa (spesso orientata dal diverso colore politico) tra Stato e regioni. Contrasti che nel corso dei cinquant’anni sono cresciuti a dismisura e finora sempre “risolti” a colpi di sentenze nella ovattata aula della Corte costituzionale, la quale ha visto progressivamente aumentare ogni anno il numero delle cause per conflitti di competenza tra legislazione statale e regionale.
Benché previste nella Costituzione repubblicana del 1948 – le quindici regioni a statuto ordinario sono nate formalmente il 7 giugno 1970, dopo un lungo iter parlamentare più volte interrotto e ripreso tra dubbi e ripensamenti, anche all’interno dei partiti favorevoli al regionalismo.
Quel 7 giugno di cinquant’anni fa era, come quest’anno, una domenica e gli italiani furono chiamati alle urne per eleggere, insieme ai consigli comunali e provinciali, le prime assemblee legislative regionali. Le “martellanti” campagne elettorale di quei tempi e anche la novità rappresentata dall’istituzione delle regioni portarono ai seggi percentuali altissime di elettori (a Camerino furono più del 95%). Percentuali che non si sono più ripetute per la continua disaffezione verso la politica. Un progressivo distacco che le regioni hanno sicuramente contribuito ad accentuare nel tempo. Il moltiplicarsi dei livelli decisionali (come dimenticare la istituzione delle comunità montane, poi unioni di comuni), il sovrapporsi di norme legislative e regolamentari, l’accumulo di burocrazia e il lievitare della spesa pubblica sono tutte concause del “malessere”.
Sette anni fa, un’indagine del Siope (sistema della ragioneria dello Stato che rileva incassi e pagamenti della pubblica amministrazione) assegnava alle regioni il triste primato della spesa e – per la quota di “costi della politica” – tutte insieme superavano di venti volte l’ammontare complessivo delle 107 province italiane, delle quali, invece, si denunciava l’inutilità.
Inoltre la stesa indagine assegnava alle regioni anche “l’infelice record del rapporto tra spesa corrente e spesa produttiva”: 145 miliardi di euro in un anno per far funzionare la macchina burocratica contro solo 17 miliardi per investimenti su strade e ospedali.
Occorre anche ricordare che per loro natura le regioni hanno da sempre una incapacità operativa nella gestione dei servizi, tanto da doverli delegare a comuni e province. La storia del continuo passaggio di competenze sulla viabilità ex statale negli ultimi venti anni lo ha dimostrato e se la sciagurata abolizione delle province fosse andata a compimento, molti servizi esercitati dalle amministrazioni provinciali (viabilità ed edilizia scolastica in primis) sarebbero entrati in una sorta di paralisi.
Anni fa un famoso libro-inchiesta scritto da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, intitolato “La casta”, finì per diventare l’arma di chi voleva sopprimere le province, che invece – come enti di “prossimità” e per la loro lunga storia – sono sempre state l’ossatura su cui si è retto lo Stato unitario. Del resto, più i livelli di gestione si sovrappongono e si allontanano dai cittadini, più il meccanismo si “burocratizza” ed è destinato a fallire gli obiettivi.
Dopo cinquant’anni, sulla base dell’esperienza compiuta e della situazione in cui il paese si trova, una riflessione sul ruolo delle regioni andrebbe seriamente compiuta.
© Alessandro Feliziani / Orizzonti della Marca
(Articolo pubblicato sul settimanale ORIZZONTI della MARCA n. 22 del 6 giugno 2020)
Commenti
Posta un commento