Anni ’90, quando Sgarbi e le aste diedero notorietà a San Severino

Il pubblico presente all'asta egli arredi di Palazzo Collio del 23-24 febbraio 1991 (Foto Carlo Gentili)


La vendita all’asta di beni di imprese dichiarate fallite è purtroppo un evento sempre più frequente, ma è raro che l’intero patrimonio posto all’incanto sia costituito da opere d’arte, mobili d’antiquariato e libri antichi. Quando questo avviene la notizia si diffonde rapidamente, richiamando potenziali compratori da tutta Italia. È stato così giorni fa anche per il primo esperimento d’asta dei beni del fallimento della società Aretè di San Severino, che per anni ha curato alcuni servizi per conto del noto critico d’arte Vittorio Sgarbi.
Per il clamore suscitato, per l’interesse di diversi compratori giunti da più parti e per la città sede della società dichiarata fallita, questa vendita all’incanto, ha fatto ricordare altre due aste di arredi antichi e opere d’arte avvenute nei primi anni Novanta a San Severino. Furono due episodi che, anche per la presenza in città di Sgarbi (prima come consigliere comunale di opposizione, poi come sindaco), contribuirono a far uscire San Severino dal cono d’ombra in cui sono spesso relegati tanti piccoli centri d’arte. Non si trattò, all’epoca, di vendite giudiziarie, ma di incanti gestiti dalla famosa casa d’arte veneziana Semenzato per conto degli eredi di una nobile famiglia settempedana.
La prima asta, che si tenne nell’arco di due pomeriggi (23 e il 24 febbraio 1991), riguardò l’arredamento antico di Palazzo Servanzi Collio, mentre la seconda, avvenuta il 18 luglio del 1993 – peraltro allora era sindaco della città proprio Vittorio Sgarbi – ebbe per oggetto mobili, dipinti e sculture di Villa Collio. Entrambe ebbero vasta eco sui giornali e a San Severino non mancarono vivaci polemiche in sede politica, soprattutto in occasione della prima asta.  
L’amministrazione comunale dell’epoca – un’inedita giunta costituita da Democrazia cristiana e Partito comunista, guidata da Alduino Pelagalli – cercò in tutti i modi di bloccare l’asta, poiché – si sosteneva, negli ambienti politici e culturali – che con la vendita all’asta una rilevante parte del patrimonio storico-artistico della città sarebbe andato perduto. Della questione furono interessate diverse istituzioni e in primo luogo la Soprintendenza ai beni culturali. Due parlamentari maceratesi, Adriano Ciaffi (Dc) e Vanda Dignani (Pci), presentarono addirittura interrogazioni alla Camera dei deputati. Il gran rumore suscitato portò, comunque, ad un momentaneo risultato. Alla vigilia dell’asta, infatti, l’allora ministro per i beni culturali, Ferdinando Facchiano, firmò un decreto con il quale circa cento dei seicento pezzi messi in vendita (praticamente quelli di maggior valore) furono dichiarati di “eccezionale interesse artistico e storico”. Ciò significava che quella parte del mobilio veniva sottoposta ai vincoli della legge del 1939 sulla tutela del patrimonio artistico nazionale. In pratica quei beni andavano a costituire “un unicum” e di conseguenza potevano essere venduti solo in blocco, con identico vincolo per i successivi proprietari. Fu così che, dopo aver venduto singolarmente circa quattrocento pezzi, tra cui uno studio “Luigi XVI” aggiudicato per 160 milioni di lire, con un ricavo complessivo di due miliardi e mezzo, il banditore annunciò l’asta per l’insieme degli oggetti sottoposti a vincolo. Il prezzo base fu fissato in tre miliardi e duecento milioni di lire, ma dalla vasta platea di compratori nessuna mano fu vista alzarsi.
Uguale interesse mediatico, ma nessun tentativo di fermare l’asta, si registrò in occasione della vendita all’incanto del 1993, che – favorita dalla bella stagione – si svolse nel parco della villa. Quasi quattrocento i pezzi in catalogo, un terzo dei quali non aggiudicato per insufficienza di offerte. In questa seconda asta non erano tuttavia presenti beni di particolare rarità o pregio che potessero far prevedere prezzi di aggiudicazione iperbolici. Tuttavia non mancarono accese competizioni tra i compratori, con rilanci multimilionari. Tra i pezzi di maggior valore, furono venduti un tavolo in noce del ‘600 (85 milioni di lire) e un dipinto della pittrice ascolana Giovanna Garzoni aggiudicato per 42 milioni. (riproduzione riservata)

(Articolo pubblicato sul settimanale Orizzonti della Marca n. 21 del 27 maggio 2017)

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